viernes, 27 de diciembre de 2013

Un covo di vipere

FICHA:

Autor: Andrea Camilleri
Editorial: Sellerio editore Palermo
Género: Novela negra
Páginas: 261

Camilleri  nos vuelve a poner en la piel del comisario Montalbano de la Polizia di Stato en su comisaría de Sicilia. En esta novela, el caso arranca cuando se recibe una llamada en comisaría alertando de que un importante comerciante ha sido disparado en su casa a primera hora de la mañana mientras desayunaba. De un posible homicidio se descubre que se han producido dos sobre la misma persona. 

El comerciante primero fue envenenado y posteriormente disparado ¿por qué no se le envenenó directamente? ¿Desconocía el segundo homicida que ya había pasado por ahí el primer homicida? Muchas preguntas y pocas respuestas harán indagar a Montalbano sobre todos los pormenores del caso. La aparición de un vagabundo, despertará en la pareja de Montalbano una necesidad de socorrerlo, pese a que no lo necesite ni lo requiera, y Montalbano empatizará con él. Su aparición resultará crucial para Montalbano. Herencias, disputas familiares y una oscura y promiscua vida sexual del comerciante serán los ejes sobre los que gire la trama.

Camilleri mantiene su escritura directa y coloquial, usando el dialecto siciliano de forma contrapuesta al italiano, que aparecerá sólo en momentos formales dentro de los diálogos de los protagonistas de la novela. Esto produce que algunos lectores le admiren y otros por el contrario lo detesten. El autor aprovecha la ocasión para tratar un tema tabú como es el del incesto mientras desarrolla la novela. No es la mejor obra del autor, la trama se desvela de forma casi súbita, pero hay determinados capítulos que hacen que Montalbano sea nuevamente ese héroe cotidiano y afable a quien tantos lectores admiran.

SIPNOSIS DE LA EDITORIAL:

«Il ragioniere Cosimo Barletta, sciupafemmine compulsivo e strozzino, è stato trovato morto: ucciso con modalità che a prima vista appaiono inesplicabili, e addirittura insensate. Montalbano indaga sui segreti impenetrabili di una famiglia e sui misteri di una comunità. Sui rapporti di sangue e quelli di affinità. Entra nei recessi e nei meandri di tante vite private» (Salvatore Silvano Nigro).
Sognando, Montalbano è entrato in un sogno dipinto da Rousseau il Doganiere. Si è ritrovato, insieme alla fidanzata Livia, nel respiro di luce e nella convivenza innocente di un’edenica foresta. Gli intrusi riconoscono il luogo solo grazie a un cartello inciso a fuoco. Sono nudi. Ma portano addosso l’ipocrisia di foglie di fico posticce, fatte di plastica. L’armonia dell’eden, la sua mancanza di volgarità e violenza, è una finzione pittorica. Non appartiene a nessun luogo reale. E neppure ai sogni. Ciononostante, anche nella cieca e brutale realtà può sopravvivere la delicatezza del canto discreto e cortese di un uccello del paradiso saltato giù dai rami dipinti o sognati. Montalbano viene svegliato dal fischiettare di un garbato vagabondo che intona Il cielo in una stanza, con «alberi infiniti», imponendosi sul fracasso di un temporale.

La filologia congetturale del commissario deve applicarsi al fondo torbido e malsano di esistenze nascoste e incarognite dal malamore, dagli abusi e dalle sopraffazioni, dalla crudeltà e dalla sordidezza, dalle ritorsioni e dai ricatti, dalla gelosia e dal rancore: non meno che dall’interesse. Il ragioniere Cosimo Barletta, sciupafemmine compulsivo e strozzino, è stato trovato morto: ucciso con modalità che a prima vista appaiono inesplicabili, e addirittura insensate. Montalbano indaga sui segreti impenetrabili di una famiglia e sui misteri di una comunità. Sui rapporti di sangue e quelli di affinità. Entra nei recessi e nei meandri di tante vite private. Fa i conti con sensazioni equivoche, desolazioni, e disperate tenerezze. Incontra figuranti di sofisticata semplicità o di apatica frigidezza. Va alla ricerca di un testamento annunciato e paventato, ma che forse non c’è. Montalbano ha davanti un muro di buio, dietro il quale avverte qualcosa di terribile che lo spaventa. Si lascia risucchiare da un abisso, lungo una linea di faglia che gli dà le vertigini. Confinato nella sua solitudine, sente con trepidazione che il momento della verità si approssima. Aguzza l’ingegno. Ma il suo sguardo è tutt’altro che spietato. Compassionevole, il commissario raccoglie dalla divina foresta di Rousseau il Doganiere l’eco ancora riascoltabile di una aerea nota. E, senza prurigini, ha rispetto per il vero pudore: per la nudità, alla fine, di chi non è innocente e non è del tutto colpevole. Chiude il caso tragico, pietosamente: con dolorosa malinconia. Non dà voti di condotta. Dal dramma Hedda Gablerdi Ibsen ha imparato a sondare le psicologie controverse. E dal film Il cattivo tenente di Abel Ferrara ha appreso la forza della comprensione. Camilleri lascia che la sua scrittura pulsi di tutto un inventario di inquietudini letterarie e cinematografiche, e di atavici spaventi. Scrive un romanzo di solido impianto, su colpe che raggelano quanto il terrore gorgonico in una tragedia greca.  Salvatore Silvano Nigro

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